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Inchiesta sulla Famiglia di Maria: la storia di Iveta, dalla vocazione forzata alla ricerca di sé

Inchiesta sulla Famiglia di Maria: la storia di Iveta, dalla vocazione forzata alla ricerca di sé

Iveta Korčáková (oggi sposata Hudaková) ha dodici anni quando, nel 1992, viene “notata” per la prima volta dai due fondatori della Famiglia di Maria (comunità commissariata dal Vaticano, v. la nostra inchiesta), Gebhard “Paul” Sigl (attualmente sotto inchiesta ecclesiastica) e mons. Pavol Hnilica, vescovo slovacco ordinato in clandestinità sotto il comunismo, personaggio molto controverso. Siamo nel nord-est della Slovacchia, nel villaggio natale di Iveta, Litmanová: la sua è la storia di una vocazione forzata.  

Iveta infatti non è una bambina qualsiasi: dal 1990 afferma che sulla montagna, Hora Zvir, le appare (e non solo a lei, ma anche a una coetanea, sua amica) la Vergine Maria. La cosa prosegue per cinque anni e poi si interrompe; nel frattempo il luogo diventa meta di pellegrinaggio (nel 2008 sul posto è stata costruita una cappella all'aperto, dichiarata luogo di pellegrinaggio mariano greco-cattolico dell'Arcieparchia di Prešov sotto il patrocinio dell'arcivescovo Ján Babjak, all'epoca capo della Chiesa greco-cattolica slovacca) e la vita di Iveta viene sconvolta e sottoposta a pressioni inaudite da parte della famiglia, del villaggio, della Chiesa. La sua storia è raccontata in un documentario del 2008, Ivetka a Hora (Ivetka e la montagna) del regista ceco Vít Janeček, che ripercorre quella vicenda, sottolineando come a un certo punto Iveta entri nel radar dei fondatori della Famiglia di Maria, che la spingono a entrare nella comunità. Che, lo ricordiamo, nacque proprio in Slovacchia, riconosciuta a livello diocesano nel 1992 dal vescovo di Rožňava mons. Eduard Kojnok.

Certamente, per Sigl e Hnilica poter vantare tra i membri la presenza di una veggente sarebbe stato un plus, nel contesto dell'avvio della “nuova” comunità, sorta dalle ceneri dell'Opera dello Spirito Santo (comunità fondata e guidata dall'austriaco p. Joseph Seidnitzer, pluricondannato per pedofilia, e mentore di p. Sigl), dissolta nel 1990, nonché da quelle della Pro Deo et Fratribus di mons. Hnilica, fondata nel 1968, attraverso la quale confluiva denaro per i cattolici dell'Est Europa comunista, e alla quale bisognava dare, dopo la caduta del muro di Berlino, una nuova missione. Sigl e Hnilica, particolarmente devoti della Madonna di Fatima ma soprattutto particolarmente inclini alle rivelazioni private (come quelle cosiddette "di Amsterdam" di Ida Peerdemann, di cui Sigl era intimo amico) tenevano a tal punto alla presenza di una veggente che, più o meno nello stesso periodo, quando la guerra nella ex-Jugoslavia aveva provocato il temporaneo declino di Medjugorie, avevano fatto entrare in comunità anche Theresa Lopez, una pseudo-veggente nordamericana le cui visioni furono poi definite non sovrannaturali, allo scopo di creare una alternativa al sito della Bosnia-Erzegovina. Per Sigl, avere in comunità Iveta, veggente di Litmanová, la cui notorietà in Slovacchia era in crescita, avrebbe significato molto, almeno in termini di credibilità spirituale, di attenzione pubblica e di approvazione. 

Ma torniamo a Iveta. Al netto della sua precedente esperienza mistica (accettata dalla Chiesa greco-cattolica slovacca e attualmente in attesa di un pronunciamento ufficiale da Roma), la sua è la storia di una ragazza minorenne la cui autodeterminazione viene violata. Pur non avendo, a 15 anni, alcuna inclinazione per la vita religiosa, viene convinta con la forza a entrare in comunità, a Stara Halic, sede del noviziato della Famiglia di Maria. A fare pressione su di lei è p. Gebhard “Paul” Sigl, che definisce i suoi dubbi una tentazione demoniaca, fa leva sul “privilegio” di cui è stata depositaria e le instilla sensi di colpa, fino a riuscire a convincerla. 

Da un lato, Iveta racconta una storia di infelicità e disperazione che portano a un tentativo di suicidio, di isolamento e negligenza subite; una storia di manipolazione, dipendenza, infantilizzazione, sfruttamento, controllo e manipolazione emotiva. Dall'altro lato, condivide la storia di un viaggio interiore in cui la speranza emerge dal più oscuro abisso della disperazione, il viaggio di una giovane adulta attraverso la lotta adolescenziale verso l'autonomia e l'individuazione, in cui queste sono state soppresse e negate, ma anche un percorso di fede che supera le sfide anziché cedere al fatalismo. Una storia durata ben nove anni, dal 1995 al 2004, che la stessa Iveta, che oggi vive in Gran Bretagna, racconta in prima persona in una autobiografia di prossima pubblicazione, del quale ci ha gentilmente concesso di riportare anticipatamente in italiano il capitolo relativo a quegli anni. 

 

 

La voce "là fuori", la voce "qui dentro"

“Scoprire la vocazione non significa affannarsi verso qualche premio appena fuori dalla mia portata, ma accettare il tesoro del vero sé che già possiedo. La vocazione non proviene da una voce ‘là fuori’ che mi chiama a essere qualcosa che non sono. Proviene da una voce ‘qui dentro’ che mi chiama a essere la persona che sono nata per essere, per realizzare l’individualità originaria donatami alla nascita da Dio”.

Thomas Merton

 

Tutto cominciò un po' per caso, quando un gruppo di studenti, insieme all'insegnante tedesco Gebhard, si fermò a casa nostra per salutare. Rimasi colpita dal loro entusiasmo e dalla loro devozione, cosa non comune tra i giovani, trattandosi di religione. Non avevo nemmeno dodici anni, all’epoca. Avevano iniziato a recarsi in pellegrinaggio alla collina dove ricevevo apparizioni della Vergine Maria da quando avevo undici anni. Di tanto in tanto scambiavamo qualche parola o un’occhiata amichevole. Nello stesso periodo conobbi il vescovo Hnilica, che mi trattò con gentilezza fin dal primo momento in cui ci incontrammo. Mi invitò a un ritiro spirituale con una comunità che si trovava sotto la sua cura pastorale. All'epoca non avevo la minima idea delle controversie legate a questa comunità. Ne ho letto per la prima volta poco tempo fa e ho scoperto che il fondatore della comunità, p. Joseph [Seidnitzer, ndt], era stato accusato di gravi tendenze pedofile. Apparentemente incline alla grandiosità spirituale, costui affermava di possedere ogni sorta di carisma mistico e doni eccezionali che attiravano i giovani verso di lui. Ma a causa del suo passato controverso, p. Joseph dovette alla fine rinunciare al ruolo di guida spirituale di questa comunità. Il suo successore, Gebhard, era un membro straordinariamente dotato della stessa comunità. Eppure, all'epoca, trentatré anni fa, tutto ciò che vedevo era un gruppo incantevole di giovani entusiasti. Quello che ricordo di questo ritiro sono i volti sorridenti di studenti che apparivano felici, già ammaliati da questo vivace gruppo.

Durante questo ritiro, Gebhard mi chiese se avevo già dei progetti per le vacanze estive perché in caso contrario sarebbe stato felice di portarmi a Roma. Ero sorpresa ed eccitata allo stesso tempo e non mi è mai venuto in mente di riflettere su cosa potesse esserci dietro. Così, io, mia cugina e altre due ragazze trascorremmo circa una settimana a Roma in una bellissima villa che apparteneva alla suddetta comunità. Alla fine della settimana, il vescovo Hnilica mi chiese se avessi voluto andare in Russia con lui. Era un'offerta irresistibile. Non avevo mai viaggiato da nessuna parte, prima, quindi ero incredibilmente curiosa e affascinata dall'ignoto. Mia cugina tornò a casa con le ragazze, e io proseguii il viaggio. Eravamo accompagnati anche da cinque candidati al sacerdozio: Gebhard, Luciano, Johannes, Aleandro e Rolf. Passammo da Mosca agli Urali. Poiché non parlavo nessuna lingua straniera, passai la maggior parte del mio tempo con il vescovo Hnilica. Visitammo centri missionari, ospedali psichiatrici e orfanotrofi. Questo viaggio mi fece una grande impressione.

Negli anni seguenti fui sempre invitata a partecipare ai ritiri estivi con la comunità. Ebbi anche l'opportunità di assistere alla prima messa di Gebhard (ora p. Paul) dopo la sua ordinazione sacerdotale. Dopo l'ultima apparizione della Vergine Maria, p. Paul mi chiese di andare a Roma. Questa volta, insieme ad alcune ragazze slovacche interessate a entrare nella comunità.

Manipolata e condizionata

Avevo notato che p. Paul era molto rispettato dai suoi seguaci. Lo ammiravano e lo guardavano con devozione. Durante il mio soggiorno a Roma, mi invitò a una chiacchierata in cui mi parlò della sua ferma convinzione che io avessi una vocazione a unirmi alla sua comunità. Non ci avevo mai pensato prima, né mi sentivo attratta da quella strada. Una ragazza che aveva già deciso di entrare nella comunità tradusse la nostra conversazione poiché all'epoca non parlavo ancora nessuna lingua straniera. Gli spiegai con fermezza (o almeno ci provai) che non mi sentivo chiamata a questa vita e che non ne avevo alcun desiderio. Lui non era disposto ad ascoltare. Dopo tutto, avevo solo sedici anni e non capivo perché fosse così urgente decidere su una cosa di enorme importanza come quella sotto una pressione del genere. Ero ancora minorenne, avevo appena finito il secondo anno della scuola per infermiere, mentre lui era un uomo di quarantasei anni con una formazione accademica e un notevole talento artistico. Le nostre rispettive esperienze di vita non erano paragonabili, così come l'influenza che egli poteva esercitare in quanto leader ammirato. P. Paul respinse i miei dubbi e le mie insicurezze in un modo che non ammetteva discussione. Descrisse le mie obiezioni come tentazioni e voce del diavolo. Ero del tutto consapevole che ciò che stava accadendo non era giusto. Sentivo nel mio corpo, nella mia anima che non era una decisione mia, e che quella non ero io. Mi disse che se la Vergine Maria non avesse voluto questo sacrificio da me (con ciò intendendo l'ingresso immediato nella sua comunità), sarebbe apparsa a un asino qualsiasi! Onestamente, dopo tutto questo, mi sentii un asino anche se avevo fatto quel sacrificio. E l'unica cosa che rimase di questa esperienza sconcertante fu un pensiero, che ricordo ancora con precisione: «Mio Dio, come farò a uscirne...».

Con il senno di poi, sono in grado di vedere, ora, come quello fosse un momento particolarmente delicato per me, per affermare me stessa più di quanto non abbia cercato di fare. Le apparizioni erano cessate. Avevo visto la Vergine Maria per l'ultima volta e questo aveva avuto un impatto significativo su di me. Devo dire che, a livello personale, stavo attraversando un momento di transizione difficile, dopo aver avuto apparizioni per circa cinque anni. Mi ritrovai improvvisamente in un luogo di grande solitudine. Volevo allontanarmi il più possibile da quella collina che suscitava in me i sentimenti più dolorosi che avessi mai provato. Mi sentivo abbandonata e smarrita. E in ogni caso, in quel momento non sapevo quanto sarebbe stato importante ammettere questi sentimenti e entrare realmente in contatto con ciò che stava accadendo dentro di me. Non c'era nessuno che potesse aiutarmi a elaborare questo dolore con compassione e comprensione. Guardando indietro, appare ovvio che quello fosse il momento meno adatto per qualsiasi cambiamento radicale o per prendere decisioni importanti. E sicuramente era il momento in cui più vulnerabile alla manipolazione. Mi trovai sotto il condizionamento di una persona che mostrava eccessiva fiducia in se stessa. Le mie lotte con l'insicurezza erano troppo fragili per sopportare la certezza assoluta delle sue convinzioni.

Il mio anno di noviziato fu praticamente identico al mio ingresso iniziale nella comunità. Cercai con grande determinazione di spiegare che quello non era il mio posto e, trasgredendo di tanto in tanto alle regole, credevo che alla fine sarebbero stati loro stessi a cacciarmi. Dopo un anno di sforzi vani, finalmente raccolsi abbastanza coraggio da lasciare la comunità. Tornai a casa con l'intenzione di non farvi più ritorno. Tuttavia, secondo la tipica mentalità rurale e la fede semplice del piccolo villaggio da cui provengo, lasciare la vocazione religiosa può essere percepito solo come una caduta dalla grazia e un grande fallimento, una vergogna per l'individuo e la famiglia.

La notte più buia

Per paura dell'umiliazione, mia madre insistette affinché tornassi nella comunità. Fu l'inizio della mia notte più oscura. Non riuscivo a vedere altro che buio. E quindi sembrava assurdo tornare indietro e fingere di essere viva. Avevo completamente e assolutamente perso il senso di me stessa e anche il legame con i miei ruoli esterni - essere una brava figlia, una giovane normale, una veggente credibile, una novizia laica rispettabile, una persona dignitosa – svanì del tutto. In tutto ciò c'era una cosa che sapevo con certezza incrollabile: che Dio comprendeva veramente la mia spaventosa nudità interiore. E così, per quanto assurdo possa ora sembrare, quella notte, toccato il fondo del baratro dell'impotenza, cercai di porre fine alla mia vita. Per mia fortuna, mia madre irruppe in tempo in bagno... Non dimenticherò mai come piangemmo entrambe su quel freddo pavimento. Nessuna di noi aveva parole per il dolore che entrambe provavamo.

Eppure devo ammettere che il tentativo di suicidio era l'ultima cosa di cui avrei mai immaginato di essere capace. Specialmente in un contesto religioso sarebbe stato considerato un peccato, moralmente deprecabile. Sono sicura che, da bambina, avevo già assorbito tale sensibilità dagli adulti. Quindi ero assolutamente convinta che non mi sarebbe mai successo. Tuttavia, non mi rendevo conto di quanto poco comprendessi e cogliessi davvero la profondità e la forza della vita. Praticamente nessuno intraprende consapevolmente quella strada. Quindi ciò che si vede sulla superficie è raramente ciò che accade sotto. Molti di noi sono stati educati all'abitudine di basare i propri giudizi solo sulle prime impressioni. Ma ciò che vediamo è principalmente l'esterno, solo una copertura per ciò che è nascosto sotto. Per me, il dolore più grande è stata la violazione della mia anima: essere costretta contro la mia volontà, non essere ascoltata e che l'autorità spirituale fosse usata per calpestarmi. Era come se non riuscissi a vedere nessun'altra via d'uscita da questa situazione insopportabile.

Nonostante tutto questo, dovevo tornare al mio noviziato perché mia madre non riusciva davvero a comprendere la prospettiva di affrontare la vergogna di lasciare la congregazione religiosa. La paura della vergogna ebbe l'ultima parola, e andai, spenta e stremata, come un relitto. Capii che non avevo scelta, dovevo adattarmi se volevo sopravvivere. Durante la mia permanenza lì, desideravo spesso poter mettere a tacere per sempre la mia voce interiore. Quanto sarebbe stata più facile la mia vita allora? Eppure, nonostante la mia buona volontà e il tentativo della comunità di raddrizzarmi per migliorarmi, dal loro punto di vista, la vera me, dentro, non poteva essere ridotta al silenzio.

Pensieri basati sulla paura

Sapevo di dover superare questo periodo del mio viaggio a qualunque costo. Quaranta donne che vivono insieme come comunità era una situazione faticosa, ma a volte piacevole. Ci si trovava di tutto, dall'affetto sincero alla gelosia, dal pettegolezzo all'impegno fervente per la santità. Nella casa del noviziato ho vissuto amicizie genuine così come una terribile solitudine. Mi ero affezionata a Madre Agnese. La ricordo come una brava insegnante, con una sua naturale autorevolezza e un umorismo asciutto. Era diversa da padre Paul: era una che arrivava al sodo e aveva i piedi per terra. Nelle sue lezioni sui brani della Bibbia c'era anche la sua personalità. Al contrario, l'approccio di padre Paul mi sembrava artificiosamente sentimentale ed esageratamente semplicistico. Avevo la sensazione che non lasciasse spazio ai dubbi o alla complessità della vita. La sua spiritualità, per quanto suggestiva e ricercata potesse sembrare a prima vista, era radicata in pensieri basati sulla paura. La sua comprensione del mondo appariva idealistica, in bianco e nero, e lo faceva sentire molto potente.

Trascorsi nel noviziato quattro anni (uno in più delle altre), e non volevo passare alla fase successiva per ricevere l'abito religioso. Anche se si trattava di una comunità laica e non ero formalmente vincolata da voti, i miei sentimenti verso la mia vocazione non erano affatto cambiati. P. Paul affermava che se avessi fatto il cosiddetto passo nel buio, se avessi espresso la mia fiducia cieca in Dio, Lui ora mi avrebbe sicuramente ricompensato con la certezza di una vocazione. Ciononostante, nella mia vita da sorella non cambiò nulla: non arrivò alcuna illuminazione riguardo alla mia vocazione. Per di più, non mi venne data alcuna responsabilità, né mi fu permesso studiare. La punizione per la mia perenne insicurezza era la dipendenza assoluta dalle risorse della comunità. Padre Paul lo chiamava il cammino semplice: sembrava che il mio dovere fosse cercare di avvicinarmi alla grandezza che padre Paul immaginava per me. Tuttavia, io onestamente non sapevo chi fossi realmente, perché cercavo costantemente di essere la persona che tutti intorno a me si aspettavano che fossi. Avevo solo vent'anni e sembrava che la mia crescita, da un punto di vista evolutivo, si fosse bloccata. Ad esempio, costruire un sano livello di autostima sarebbe normalmente considerato un passo estremamente importante a questa età. Avevo l'impressione di essere completamente inutile per le aspirazioni della comunità e venivo tollerata solo a causa del mio status di veggente. Non è certo una posizione in cui qualcuno desidererebbe mai trovarsi. Così, naturalmente, ho cominciato a ribellarmi come potevo. Mentre alle altre sorelle era permesso leggere solo i libri selezionati dei santi e ascoltare le lezioni di padre Paul, cominciai a esplorare il mondo della filosofia e della psicologia. Come ho detto, venivo tollerata molto più degli altri. Per esempio, ogni pomeriggio correvo, indossavo le sneakers e la mia giacca, mantenevo alcune amicizie strette al di fuori della comunità, eccetera. Volevo essere diversa perché sentivo che quello non era il mio posto. In un'occasione, padre Paul volle confortarmi dicendomi che, nonostante la mia delusione per il fatto di non avere alcuna responsabilità né il suo permesso di studiare, il mio compito era di gran lunga più importante. Secondo lui, avrei dovuto assumere la responsabilità dell'intera Slovacchia. Ma come avrebbe dovuto farmi sentire questo, dal momento che non mi era nemmeno permesso di assumere la responsabilità della mia vita? Dopo tutti quei lunghi anni, non riuscii ad avere alcuna connessione spirituale con padre Paul, nonostante sforzi significativi da parte sua.

Obbedienza incondizionata

La sua guida esigeva un'obbedienza incondizionata, che, a sentire lui, ci avrebbe salvati dagli errori. Ma in quale altro modo, se non attraverso gli errori, possiamo davvero imparare? Diceva di avere la luce per noi, ma io percepivo la sua luce come un'intrusione senza scrupoli, non come un segno dell'amore di Dio per me. I suoi metodi spirituali di controllo e manipolazione erano molto subdoli e insidiosi. Siamo stati gradualmente privati della nostra autonomia senza che ciò venisse registrato nella nostra mente cosciente. Non credo che intendesse deliberatamente abusare o danneggiare, probabilmente era in buona fede. Sembra essersi circondato di persone che si sottomettevano alla sua illuminazione spirituale senza fare domande. Certo, tutti possiamo essere soggetti alla negazione e alla grettezza spirituale, ma ciò che emerge qui sono trent'anni di condizionamento su centinaia di giovani. Una leadership di questo tipo forma personalità profondamente insicure e dipendenti che abbandonano la propria individualità per la sicurezza derivante da una fonte esterna. E molto probabilmente non trovano né quella certezza profonda né l'autenticità dell'io.

La mia crescente dipendenza dalle finanze della comunità mi preoccupava sempre di più. Mi lamentai con mia madre del fatto che non stessi ricevendo alcun supporto per sviluppare la mia indipendenza e che questo mi rattristava profondamente. Tutte le altre sorelle che avevano iniziato il noviziato con me avevano già frequentato l'università. Alla fine, mia madre decise di chiedere a padre Paul, che considerava un angelo, di permettermi almeno di terminare gli studi superiori, così che non mi sentissi imbarazzata per la mia mancanza di istruzione. Era fermamente convinta che lui avrebbe ceduto alle suppliche di una madre preoccupata. Ma invece di offrirle una qualche spiegazione, lui replicò in modo irritante: «Deve passare sul mio cadavere». Fu la prima volta che mia madre si rese conto della mia situazione. Alla fine accettò che io tornassi a casa.

«Una nullità slovacca»

Quando finalmente me ne andai, le parole di congedo di p. Paul sono state: «Sei solo una nullità slovacca e sarà sempre così. Sono sicuro che presto chiederai soldi in giro, perché non puoi mantenerti nel mondo reale e comunque non raggiungerai nulla nella vita». Ero già terribilmente spaventata, avevo fatto solo la scuola dell'obbligo ed ero una donna di venticinque anni senza un diploma, senza un passato, senza un documento a mio favore e senza prospettive per il futuro. Già, si era espresso correttamente, avevo ogni ragione di sentirmi una "nullità", ma nessuno che non abbia attraversato difficoltà di questo genere capirà mai quale libertà questo "nulla" significasse per me! Era davvero incredibile che, tanto all'inizio quanto alla fine del nostro rapporto, colpisse il mio punto più vulnerabile. Tuttavia, solo in seguito ho capito che era solo una proiezione di come si sentiva dentro di sé. Se non ti conformavi al "suo unico giusto cammino, alla sua luce", venivi colpito dal suo lato più oscuro.

Spesso, quando ricordo la mia esperienza nella comunità, mi viene in mente una frase del film Le ali della libertà: «Prima odi quei muri, poi ti ci abitui, e infine ne diventi dipendente». Questo è stato il mio percorso, e quindi una parte di me.

Non riuscivo, però, ad accettare facilmente il mio cammino tormentato. Razionalizzavo il mio dolore e non volevo più entrare in contatto con esso. Mi vergognavo di sentirmi una vittima, e ho represso la mia rabbia e il mio furore il più a lungo possibile. E forse vi starete chiedendo cosa sia rimasto in me di queste esperienze. Mi porto ancora dietro una paura radicata delle comunità e dei gruppi di qualsiasi tipo. A volte mi sento sopraffatta dall'impegno reale. Mi infastidisco se incontro qualcuno che è assolutamente sicuro della propria verità e non concede spazio a domande o dubbi. Ho imparato a non fidarmi delle persone che hanno la risposta a tutto e sono pronte a dare consigli senza essere stati interrogati. In effetti, ciascuno di noi ha una storia che spesso ci porta negli angoli bui del nostro mondo interiore, dove preferiremmo non andare affatto. Ma grazie a quegli angoli bui possiamo riconoscere che la nostra vocazione è il costante desiderio della nostra anima di trovare il luogo esatto nella nostra vita presente in cui possiamo dispiegare l'amore più grande.

 

Foto di Iveta Korčáková, per gentile concessione della proprietaria

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